Il tumore della prostata

Prima di iniziare a parlare della patologia prostatica, va precisato che è fisicamente impossibile esaurire in poche righe qualunque discorso su questa patologia.

Estremamente frequente, al centro di dibattiti scientifici che coinvolgono numerosi specialisti, interessata da temi di ricerca i più vari e con numerose terapie “sperimentali”, è di fatto il classico argomento di cui si può “sentire tutto, ed in contrario di tutto”.

Basti dire che le linee guida europee si sviluppano in più di 100 pagine: quasi un libro a sé!

Di fatto l’obiettivo di questo breve discorso è semplicemente quello di dare alcune informazioni utile partendo da quelle che sono le classiche domande che i pazienti pongono nella normale pratica clinica.

Il tumore alla prostata è la più frequente patologia neoplastica nell’uomo adulto, in particolare dopo i 60 anni.

D’altra parte però, non è la prima causa di morte neoplastica nell’uomo, bensì la quarta.

Questo pone quanto meno l’attenzione sul fatto che non sempre è una patologia aggressiva, o perlomeno, non così come altri tipi frequenti di tumore (es. il polmone).

Un’altra interpretazione del fenomeno potrebbe invece essere che a differenza di altri tipi di tumore, spesso la neoplasia prostatica può essere diagnostica in fase precoce.

Infatti l’uso del markers sierico (del sangue) PSA ha permesso sicuramente di procedere a diagnosi molto più precoci. Infatti spesso il paziente, avendo eseguito un dosaggio del PSA, che viene trovato “alto” (vedi sotto), viene indirizzato alla biopsia della prostata.

Va chiarito quindi che solo la biopsia (procedura che tuttora viene eseguita sotto guida ecografica, ma che sta subendo una evoluzione con l’integrazione con la Risonanza Magnetica) fa una diagnosi.

Infatti la biopsia prostatica permette di prelevare frammenti di prostata da tutte le zone dell’organo (ed infatti viene chiamata “Mappatura”) e quindi comprendere se sia una patologia “maligna” che provoca l’elevazione del PSA.

Infatti il PSA non è un marker molto preciso. Semplicemente è una proteina che, prodotta dalla prostata, viene riversata anche nel sangue (e quindi si può dosare) quando nell’organo c’è” qualcosa che non va”.

Ma “quello che non va” non per forza è un tumore, ma potrebbe essere l’ingrossamento benigno (vedi sotto “LUTS”) oppure una infiammazione, o più banalmente un rapporto sessuale recente.

Sappiamo solo che maggiore è il livello di PSA, più è facile che una biopsia rilevi un tumore. Il PSA “alto” è quindi solo un ipotesi, più o meno valida, ma non una certezza.

Altri markers (ematici o delle urine) sono stati proposti (PCA3, PHI ecc.) ma nessuno di questi per ora è entrato nella pratica di tutti i giorni.

Di fatto quindi, è da un giudizio medico che si deve valutare se, di fronte ad un PSA elevato, si deve procedere ad una biopsia oppure provare con terapie mediche, a vedere se l’infiammazione è la cause dell’alterazione.

D’altra parte, purché impreciso, il PSA rimane l’unica maniera che abbiamo per ipotizzare una diagnosi precoce.

Il tumore della prostata di per sé non da sintomi (solo forme estremamente avanzate diventano sintomatiche, e comunque i sintomi urinari difficilmente sono dovuti ad esso).

La visita rileva le neoplasie in una fase non così precoce, per quanto tuttora la “visita della prostata” è un fondamentale presidio di medicina preventiva da eseguirsi a scadenza regolare, tra i 50 ed i 75 anni.

La diagnosi quindi viene posta dopo una mappatura ed a seconda dell’esito, si possono ipotizzare diversi approcci.

Va precisato che di recente la WHO ha pubblicato una nuova statificazione prognostica sull’esito della biopsia, che, incrociando “volume” della neoplasia ed aggressività (Gleason score) divide le diverse patologie in 5 gradi.

Le proposte diagnostiche sono molto diverse.

Terapie tradizionali sono l’intervento chirurgico (la cosiddetta “prostatectomia radicale”) e la radioterapia.

La prima può essere condotta in 3 modi: per via tradizionale, laparoscopica, robot-assistita.

Le tre tecniche hanno sostanzialmente gli stessi risultati clinici e di complicanze e di fatto, in mani esperte, rappresentano una opzione valida, efficace e tollerabile.

L’intervento in alcuni casi si associa alla linfoadenectomia, procedure che permette di rimuovere ed analizzare anche i linfonodi, capendo di preciso l’estensione della patologia, ma che di fatto ha anche un ruolo curativo (rimuovere “tutta“ la patologia).

L’intervento di fatto è gravato da un rischio di incontinenza (ora relativamente basso) e successivamente di impotenza (più concreto). Questo perché ci può essere una lesione del sistema sfinteriale, nonché una lesione dei nervi dell’erezione (detti “erigendes”).

Si sono nel tempo affinate tecniche che si propongono la salvaguardia dei nervi (dette “nerve sparing”), che di fatto però non danno garanzie, e che possono essere utilizzate solo in patologie iniziali e poco aggressive, per il rischio di “lasciare malattia”, oltre che alle strutture nervose.

La radioterapia consiste in un numero di sedute (circa 35) in cui la prostata (e i linfonodi) vengono irradiati.

I risultati oncologici sono pressochè sovrapponibili, così come le complicanze.

A lungo termine però altri tipi di complicanze si possono sovrapporre (es. stenosi dell’uretra). Peraltro, questa procedure può essere proposta in pazienti cardiopatici o con problematiche ematologiche, che controindicano invece l’intervento.

Esiste inoltre, in casi selezionati, la possibilità di posizionare in un’unica seduta, sotto anestesia, dei “semi radioattivi” nella prostata e che quindi la radioterapia venga fatta “dall’interno”, nel corso di un anno, senza necessità di sedute ripetute. E’ questa la cosiddetta brachiterapia.

La presenza in tutti questi casi di elevati tassi di complicanze, con alto impatto sulla qualità di vita, di fatto ha spinto la ricerca verso nuove terapie.

Negli anni hanno preso piede, con più o meno successo, terapie ablative (la crioterapia, che si base sul “bruciare” l’organo con bassissime temperature, oppure l’HIFU, che utilizza ultrasuoni per “distruggere” le cellule) che non comportino il rischio dell’intervento.

Di fatto queste terapia ancora attendono validazione completa e sono riservate ad una piccola percentuale di pazienti. Se nel futuro, si riuscirà a dimostrare che sia possibile solo trattare il tumore e non tutto l’organo, allora sarà possibile utilizzarle in maniera iperselettiva.

Di recente invece è stato inserito nelle linee guida un nuovo approccio clinico.

L’obiettivo è quello di valutare se la patologia sia davvero aggressiva e pertanto trattare solo quelle patologie neoplastiche prostatiche che possono avere degli effetti negativi sulla prognosi.

In altre parole, si cerca, mediante dei protocolli di controlli (follow-up) di monitorare la malattia, e quindi intervenire solo se la patologia mostra caratteristiche pericolose e quindi “vale la pena” di correre il rischio delle complicanze del trattamento.

Questo approccio viene detto Sorveglianza attiva. I protocolli di sorveglianza sono vari, nessuno probabilmente è perfetto, in Europa si utilizza generalmente il protocollo “PRIAS” che propone anche delle rebiopsie al fine di monitorare la patologia.

In ogni momento ovviamente, si può uscire dal protocollo di controllo ed organizzare un trattamento.

Infine, discorso a parte richiede l’ormonoterapia, che si basa sull’evidenza che il tumore della prostata risente favorevolmente della presenza degli ormoni sessuali maschili (il testosterone) per crescere.

La terapia ormonale (iniezioni o compresse, o entrambe) si basa sul bloccare il rilascio del testosterone o la sua efficacia nella cellula.

Non è una vera terapia (non guarisce la malattia) ma potrebbe rallentarne lo sviluppo , nonché nei casi avanzati, sintomatici, dà sollievo sui sintomi.

Al di là di ogni strategia terapeutica, fondamentale nell’affrontare questa patologia, è quindi che ci sia un adeguato counselling da parte degli Specialisti, per indirizzare tutti i pazienti verso strategie più o meno adeguate.

Non per ogni paziente ogni approccio è possibile, sia per la malattia, che per la tipologia di paziente.

Di fatto sarebbe bene farsi trattare e quindi seguire in un Centro in cui anche il follow up successivo sia adeguato, ovvero ci si faccia carico anche delle complicanze, dove si consideri anche il paziente nel successivo monitoraggio della patologia e dell’impatto che la stessa ha sulla vita di tutti i giorni.

Infatti spesso questa parte viene ridotta ad una mera lettura del PSA (che si dovrebbe azzerare, per esempio, dopo l’intervento), ma nella realtà il paziente necessita di diversi approcci, talvolta chirurgici, ma anche umani, per la gestione degli effetti collaterali di ogni tipo di terapia.

Vedi anche Neoplasia del Testicolo

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